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Una sinfonia mattutina non riuscita

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La vacanza era destinata ad essere inquieta, terribile, soffocante nel programma ripetitivo che già immaginava in questo soggiorno.

In casa era lui solo: il padre era uscito a prendere il suo giornale, all'edicola in fondo alla strada, lasciando alla madre la bicicletta per andare a far compere, dall'altro capo della strada. Il cielo era nebuloso, con poche speranze di un miglioramento per la giornata. Non c'era nulla da fare, a parte per la noia, sempre pronta a snaturare la mente sua. Dopo colazione, sente di poter essere libero da qualsiasi commissione ed obbligo di presenza fissa da persone e cose. Venne lasciato solo in casa, del tutto sciolto da possibili impegni, in una breve solitudine un poco cercata dopo i giorni passati all’aperto, alla continua messa in scena di lui stesso nelle più disparate occasioni mondane.

Andando in camera si ricorda di dover mettere alla prova un suo piccolo piglio infantile: s’accorge di poter usufruire del pianoforte del proprietario della casa di villeggiatura: un pianoforte a muro di fattura “Hawai”, stretto e dotato di tre pedali, di cui due non funzionanti. Guarda un attimo le mani sue, proporzionate al palmo, poco curate e leggermente carnose, quasi impalate alla struttura delle articolazioni; comincia ad avere qualche dubbio sulla buona riuscita dell’intera sua improvvisazione musicale. Sentiva che era improbabile poter raggiungere un livello soddisfacente, in linea con l’ambizione di riuscire a riguardarsi al suo precedente momento lontano nel tempo in cui suonava svogliatamente spartiti semplici, buoni per uno privo di fantasia nella melodia.

Comincia a strimpellare, sedutosi sullo sgabello rinfoderato, un motivetto in testa, in ricordo di un precedente ascolto tra amici, mesi prima. Inizia all’allungare gli estremi del palmo, divaricando pollice e mignolo a tal punto da toccare i due do. Li preme lentamente e cercando di andare a tempo leggero, non più pratico di musica da camera da diversi anni passati in totale disinteresse a qualsiasi richiamo allo studio, intona gli accordi difficili della sinfonia cinematografica. A passo di allievo.

Dopo i primi accordi di do, la, fa, al passare del secondo aggancia il re con giusto punto, rimanendo nel ritmo prefissato. Non azzecca il si bemolle; ecco il primo disaccordo, una nota stonata e acre all’orecchio non dimentico dell’armonia della melodia.

Ritenta considerato lo sbaglio. Fallisce ancora al passaggio ora del do col re, producendo altre note stonanti, infastidendosi. Ripete continuamente, riascolta, prende in mano il foglio con le note scritte prese dalla memoria e le corregge. Un tasto, due tasti uniti, la mano cerca di rimanere fissa e allungata alle due opposte parti; riflette sull’accordo ed erra all’ennesima ripresa. Forse le sue dita sono poco sveglie, quindi le riattiva con una scrocchiata veloce a tutti i nodi delle falangi. Passa un momento di fumo nella mente e riesce a concludere la parte non esentandosi da imprecazioni riferiti al soggetto della sinfonia stessa.

Arriva al momento saliente, il tocco maestoso del celebre pezzo musicale: ancora qualche tasto e sarebbe riuscito ad emulare con certa soddisfazione la memoria riemersa delle note. Un bemolle posto in alto, subito seguito dal do, ancora il mi; salta il re, e torna il soggetto a uscirgli dalla bocca irata. Non si arrende, torna sul punto, rifacendo da capo tutto il pezzo, sciolto dopo diversi tentativi saltati. Arriva al re e passa avanti, ma quel bemolle non torna, stona anche se compiuto nel digitarlo. Preme di nuovo il tasto dopo la sequenza, ed esplode l’armonia: nel frattempo le dita non allenate si sentono troppo tirate e si ferma un secondo.

La finisce dopo un quarto d’ora di pausa, ricontrollando ora sul web la sinfonia originale, di gran lunga più difficile di quella che pensava, troppo per uno assente del tutto da qualsiasi ripresa del pianoforte. Quel pianoforte non ha che provato il timore consolidato da qualche tempo: privo di possibilità, le sue dita erano troppo corte, tozze e rigide per mantenere l’elasticità e la giusta apposizione a zampa di ragno richiesta nella performance da pianista. Le dita della sua insegnante, degli amici pianisti; vere e proprie canne lunghe e secche, snodate e articolate l'estremo, perfette a comporre e suonare.

Quelle musiche che voleva suonare personalmente, magari a sbalordire passanti ed ospiti. Un futuro inesistente; la sua musica sarebbe stata solo quella non uscita dalle dita, ma entrata dalle orecchie, percepita dal timpano, da tutto il cervello, distorcendo e strutturando ogni nota con qualsiasi immagine simbolica impressa nella mente. Il risuonare che lo porta a immaginare. Non sembra di aver perso qualcosa: invece acquista la compiacenza di garantire quel suo ascoltare, richiamare all’attenzione la identità di ogni tasto, e di dare ad ognuno di essi un segno computato in una tastiera di scrittura, di sicuro più agevole di una musicale.

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